Ve lo ricordate Pierluigi Di Già? Calciatore classe 1968 cresciuto nelle giovanili dell’Inter per poi ritornarci dopo due stagioni da protagonista a Parma. Il centrocampista ha poi vestito le maglie di Bologna, Venezia, Palermo, Pescara, Marsala (insieme ad Evra in Lega Pro). L’esperienza in Australia prima di andare la Reggiana dove un altro grave infortunio gli ha precluso di continuare la propria carriera ad alti livelli.
La nostra redazione vuole andare a curiosare su cosa fanno i calciatori di un tempo, quelli che hanno caratterizzato, per molti, la nostra giovinezza. E magari conoscere qualche storia e curiosità in più del tempo che fu.
Sale Pierluigi, la prima nostra curiosità è ovviamente una: cosa fa ora nella vita l’ex calciatore Di Già?
“Dopo aver smesso a Tivoli per problemi ai ginocchi mi sono divertito nel Bologna come allenatore del settore giovanile. Dopo tre anni ho interrotto questa carriera per cercare di rimanere vicino a mio figlio. Mi occupo delle polizze infortuni dei calciatori e società di calcio in Italia ed all’estero. La mia scelta mi ha permesso di rimanere nell’ambito del calcio che è sempre stato il mio mondo ed il mio sogno realizzato”.
Qual è l’esperienza calcistica che l’ha più segnata? Parma, Inter o Bologna?
“Sembra una banalità ma non lo è. Ogni squadra, realtà, città mi ha trasmesso qualcosa d’importante e tutto è servito per farmi diventare l’uomo che sono. Non posso che essere grato a tutte le persone, tifosi compresi che ho incrociato nel mio cammino. E’ una cosa unica realizzare il sogno che hai da bambino”.
Quando nel 1989 tornò all’Inter scudettata c’era Trapattoni in panchina e tre fenomeni tedeschi come Brehme, Klinsmann e Matthaus. Ci racconti un aneddoto?
“In quella squadra non c’erano solo i tre tedeschi. Ricordo anche Zenga, Ferri, Bergomi, Serena, tutti nazionali. Quello che posso raccontare, oltre alla fortuna di confrontarsi con un calciatori top di livello internazionale, la cosa che mi impressionò di più. Matthaus pressava molto sul Trap affinchè io giocassi. Il mio ruolo di centrocampista di copertura faceva in modo che lo liberasse di più in fase offensiva. Tra me e lui era nata una scommessa che alla fine lo costrinse a pagarmi una cena perché io non giocai quelle due-tre partite dove lui si augurava venissi schierato. Era il mese di gennaio-febbraio e Matthaus venne a prendermi a Milano nella mia casa di famiglia dove abitavo coi miei genitori. Lo presentai a loro ed in quel frangente dichiarò che la Germania avrebbe vinto i mondiali qui in Italia l’estate seguente. Una determinazione, caparbietà, autorevolezza e per certi versi sfacciataggine di un campione”.
Oltre all’avvento delle televisioni e diritti televisivi, in che cosa è cambiato il calcio secondo Di Già rispetto agli anni novanta?
“Rispetto agli anni novanta è aumentata in maniera esponenziale la fisicità, come in tutti gli sport e nella vita. Tutto è più veloce, la tecnologia è entrata paradossalmente anche nell’atleta. Questo a discapito di alcuni aspetti tecnici come la precisione. Quando queste due qualità si abbinano siamo di fronte a dei fenomeni: Cristiano Ronaldo, Messi e quelli che gli si avvicinano. I fenomeni sono i giocatori che in ogni epoca facevano cose in maniera più rapida di pensiero rispetto agli altri. Diventa difficile paragonare quelli di oggi ad un Maradona o Ronaldo. L’altro aspetto di cambiamento è fondamentale ma non positivo: si è persa poesia e passione. Il calcio nella maggior parte dei casi è gestito da persone senza passione. Capisco che è un bussiness ma se non hai passione tutto diventa più difficile”.
I giovani sono il futuro del nostro calcio. I vari Gagliardini, Bernardeschi, Belotti, Rugani, Donnarumma sono il segnale che qualcosa in Italia sta cambiando dopo un decennio terribile?
“Speriamo che si sia imboccata la strada giusto. Se penso ad un giocatore come Bernardeschi o Donnarumma è un piacere. Non per essere nazionalista ma è una forma di amore verso la propria nazione, origine, senso di appartenenza che ci deve essere necessariamente. Però le società potrebbero fare qualcosa di più. Investire nel settore giovanile vuol dire investire nelle strutture e negli allenatori qualificati. Tecnici che devono essere uomini di valore che possano trasmettere dei messaggi importanti per i giovani i quali poi saranno lo specchio della nostra realtà. Bisogna far coltivare la passione al ragazzo non solo facendolo pensare alla diagonale ma curando l’amore per lo sport che fa, la cultura per la vittoria e per sconfitta”.
Di Già e la Tuscia hanno qualche cosa in comune?
“Certo. Sono amico del direttore generale del Monterosi Luigi Conte, nazionale militare nel 1990. Insieme vincemmo un mondiale. Ci siamo persi di vista per tanti anni. Siamo riusciti a ritrovarci grazie ad un amico in comune. E’ stato un piacere enorme. Da qui ho iniziato a seguire il Monterosi con affetto. Matuzalem? L’ho incontrato quando venni a vedere il match col Muravera. Gli dissi di calarsi il più velocemente possibile in una realtà diversa da quella a cui lui era abituato. Credo che ci sia riuscito bene. Sono molto fiducioso, il Monterosi è un club positivo per organizzazione e struttura. Mi auguro di cuore che la traiettoria sia quella giusta”.